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ROMA / 19-09-2011
ITALIA, LAVORO E PENSIONI / le nuove generazioni vittime sacrificali delle manovre economico finanziarie
ITALIA, LAVORO E PENSIONI. le nuove generazioni vittime sacrificali delle manovre economico finanziarie. Ultime notizie Roma - Dalle manovre economico-finanziarie degli ultimi mesi emerge una linea di intervento inesistente o sbagliata verso le nuove generazioni.
Il lamento sul triste destino dei giovani non manca, salvo che le soluzioni offerte sono peggio del male che vorrebbero curare.
Lavoro. È ormai noto che 2 milioni e 100.000 giovani non studiano e non lavorano e certamente non sono tutti redditieri. Sono semplicemente giovani condannati ad una condizione di marginalità, di sopravvivenza a carico delle famiglie.
E’ noto altresì che il 30 % dei giovani è disoccupato e che le giovani donne nel Mezzogiorno raggiungono il 60 % di disoccupazione.
Malgrado la crescita dell’età media nella società, quindi una minore presenza relativa di giovani nella società, i posti di lavoro per questi ultimi non ci sono. Anzi ai giovani laureati è ormai di moda consigliare di andare all’estero, non per imparare le lingue, acquisire altri punti di vista utili per il loro curriculum, ma semplicemente perché si ritiene che in Italia per loro non ci sia futuro. Naturalmente altri paesi sono ben lieti di utilizzarli perché l’Italia li ha formati, ne ha sopportato gli oneri, e loro beneficiano delle competenze e della voglia di fare.
Così si assiste a manifestazioni di stupore verso i giovani respinti dal sistema universitario e della ricerca in Italia che trovano posto in altri paesi con incarichi di responsabilità invidiabili ed invidiati in Italia da quanti per diverse ragioni non possono muoversi.
I luoghi comuni fanno tuttuno con l’incapacità di offrire soluzioni accettabili.
Ad esempio nei settori più innovativi della produzione e dei servizi i posti di lavoro sono in genere ricoperti da giovani e sono spesso di qualità. I dati sul fotovoltaico dicono che circa 20.000 occupati hanno una media di 35 anni e sono posti di lavoro più qualificati della media del nostro paese.
Il problema è che il nostro paese è in ritardo proprio sui settori innovativi per la pervicace opposizione a ogni tentativo di programmare. Per di più non tanto nel consumo ma nella produzione ad esso collegata. Restando al fotovoltaico, gli investimenti proseguono ma senza uno straccio di piano, di programma, di indicazioni pluriennali. La “liberista” Germania si è data un obiettivo di produzione di energia da rinnovabili all’80 % nel 2050. In Italia quando va bene tutto è limitato agli incentivi che certo vanno bene ma non dicono di quanto e per quanto tempo il settore potrà crescere, quanti occupati. Così è anche per gli altri settori delle energie rinnovabili, del risparmio energetico. Tutti i settori delle rinnovabili già oggi hanno più occupati della Fiat ma non la stessa attenzione politica e senza un programma pubblico per il settore non si andrà lontano, o meglio tutto sarà caotico e senza previsioni attendibili. Dopo tante chiacchiere sul rapporto che occorre stabilire tra formazione e impresa continua ad esserci ritrosia a stabilire con chiarezza gli impegni produttivi e di investimento che potrebbero spingere i giovani a preferire un indirizzo di studi e di formazione anziché un altro.
Anche Confindustria ha prestato ben poca attenzione, al di là delle dichiarazioni rituali, a questa situazione. Confindustria si è schierata a favore del nucleare e ha difeso (sbagliando) a spada tratta gli interessi del settore, mentre non si è occupata con lo stesso impegno delle energie rinnovabili, considerate (a torto) evidentemente un settore di minore importanza.
La verità è che Confindustria difende gli interessi costituiti e tradizionali e avrebbe bisogno di un indirizzo del governo per spingere le imprese verso l’innovazione. Purtroppo questo indirizzo non c’è.
Pensioni. Confindustria si è distinta, anche attraverso Il Sole, per una pressante campagna sull’innalzamento dell’età pensionabile. Il Giovanotto che guida i giovani imprenditori ha sposato questa tesi con prosopopea. Questa pressione di Confindustria continua e questo Governo, di fronte al disastro annunciato, potrebbe essere tentato di aggiungere altri disastri agli inteventi già fatti, che porteranno - ad esempio - l’età pensionabile delle donne oltre i 66 anni in pochi anni.
Quindi è bene parlare chiaro per tempo. Anche per evitare che nell’opposizione qualcuno finisca con il subire idee sbagliate.
Sul piano generale alzare oltre un limite ragionevole l’età pensionabile che effetti avrebbe ?
Se i lavoratori attuali andranno in pensione più tardi e non ci saranno nuovi posti di lavoro - come non è previsto che ci siano - per i giovani il risultato finale sarà di aumentare gli anni della loro attesa di un posto di lavoro. Abbiamo già saltato una generazione nel lavoro, così ci appresteremmo a saltarne un’altra. Del resto se i posti di lavoro tendono a diminuire e chi è al lavoro non se ne va chi dovrebbe entrare non potrà che restare ulteriormente in attesa.
Il caso più emblematico è l’Università. La pressione dei professori per restare in cattedra il più tardi possibile (70 anni e oltre) non fa che ritardare l’entrata di giovani, che anche per questo vanno a cercare migliore fortuna all’estero.
I posti di lavoro che saltano sono di lavoratori che hanno 50/55 anni e che rischiano di restare in una trappola, senza lavoro e senza speranza di pensione. Le cronache di queste settimane sono state piene di lettere di lavoratori che denunciavano gli effetti perversi dell’aumento continuo dell’età pensionabile sulla loro condizione, fino a restare senza l’uno e senza l’altra.
Se venisse generalizzato l’obbligo di restare al lavoro i giovani non potrebbero essere assunti.
Quindi i problemi sono 2. Aumentare i posti di lavoro per i giovani e consentire a chi volesse proseguire l’attività lavorativa di restare, eventualmente a part time, e comunque garantire una equilibrata sostituzione tra giovani e anziani.
Quale potrebbe essere il punto di equilibrio ?
Certamente non si può bloccare chi ha 40 anni di lavoro e di contributi versati. Né si può immaginare che per fare tornare i conti si possa alzare l’età dell’inizio del lavoro. Iniziare il lavoro a 32/33 anni vuol dire condannare una generazione a restare fuori dal lavoro, dal costruirsi una famiglia, dal conquistare la propria autonomia.
La transizione verso il sistema di pensionamento a regime si può sempre discutere, per questo è importante mantenere una flessibilità in uscita e anche nel rientro al lavoro ove possibile e desiderato.
Costi eccessivi ? In realtà non sono tali, perché se si guarda all’insieme gli stipendi dei giovani e le pensioni di chi lascia il lavoro sono domanda interna e il suo aumento è oggi il primo degli obiettivi da raggiungere, altrimenti si parla di ripresa ma in realtà ci si condanna alla stagnazione e anche peggio. In realtà le pensioni sono viste da confindustria e da altri come un gruzzolo da spartire ma questo ha, tra l’altro, il difetto che sottrarrebbe risorse alla ripresa.
Alfiero Grandi
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