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USA / 27-02-2012
LA GRANDE DEPRESSIONE NON TOCCA GLI OSCAR / Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, orgoglio italiano degli Oscar 2012
LA GRANDE DEPRESSIONE NON TOCCA GLI OSCAR. Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, orgoglio italiano degli Oscar 2012. Ultime notizie USA - UnoNotizie.it - Se andate a cercare la trama di The Artist, potrete constatare anche da soli, che il film muto e in bianco e nero che ha vinto l’Oscar racconta di una Hollywood, 1927. E ha sbancato, tre piccioni con una fava: “Jean Dujardin ha avuto l’Oscar come miglior attore nel film muto e in bianconero ‘The Artist’: è il primo attore francese ad aggiudicarsi la prestigiosa statuetta dell’attore protagonista. ‘Michel Hazanavicius ha vinto l’Oscar per la migliore regia, sempre per ‘The Artist’, che ha vinto anche come miglior film.”
“George Valentin è un grande divo del cinema muto, un giorno, alla premiere di un suo film, viene fotografato insieme ad una ammiratrice, Peppy Miller. La foto verrà poi pubblicata sulla prima pagina di Variety. Qualche tempo dopo Valentin ritrova la ragazza sul set di un suo film come comparsa; durante le riprese del film si sviluppa una forte attrazione tra i due, che però non si trasforma in altro. Nel 1929, con l’avvento del sonoro, Valentin si rifiuta di recitare nei film parlati, abbandona il suo produttore Al Zimmer e decide di investire tutti i suoi averi nella realizzazione di un film muto tutto suo, il quale però uscirà nelle sale lo stesso giorno del film sonoro con protagonista Peppy Miller, la cui carriera è in continua ascesa.
Il film non avrà alcun successo commerciale, mandando in rovina George, i cui pochi soldi rimasti sono andati perduti a causa della Grande Depressione. Nel 1931 Valentin ormai è un attore dimenticato, si ritrova sul lastrico e inoltre è stato lasciato dalla moglie. Vende tutti i suoi beni all’asta, si trasferisce in un piccolo appartamento insieme al suo fedele jack russell e licenzia il suo autista Clifton, che pure lo aveva seguito fedelmente negli anni a dispetto dei rovesci finanziari. Un giorno, in preda all’alcol e alla disperazione, dà fuoco alle pellicole dei suoi film e nella stanza si sviluppa velocemente un pericoloso incendio, il suo cane scappa e riesce a far salvare il padrone richiamando l’attenzione di un poliziotto.
Quando si risveglia si ritrova nella casa di Peppy Miller e scopre che è stata proprio lei, da sempre innamorata di lui, ad acquistare i suoi beni all’asta. Rifiutando per orgoglio l’amore di chi lo aveva salvato torna a casa sua e sta per suicidarsi, ma Peppy riesce a capire le sue intenzioni e lo salva. Peppy Miller vuole che George Valentin torni a lavorare, va da Al Zimmer e minaccia di lasciare la sua compagnia se non lo avesse ripreso con lui, anche se in un ruolo diverso: il musical. Il produttore accetta e così Peppy e George sono nuovamente insieme da protagonisti sulle scene.”
Vorrei anche dirvi la mia personale contentezza per la vittoria della pellicola iraniana ‘A separation’, del regista Asghar Farhadi, che si è aggiudicata l’Oscar per miglior film in lingua non inglese: è la prima volta in assoluto che un film iraniano si aggiudica l’Oscar.
“Nader e sua moglie Simin stanno per divorziare. Hanno ottenuto il permesso di espatrio per loro e la loro figlia undicenne ma Nader non vuole partire. Suo padre è affetto dal morbo di Alzheimer e lui ritiene di dover restare ad aiutarlo. La moglie, se vuole, può andarsene. Simin lascia la casa e va a vivere con i suoi genitori mentre la figlia resta col padre. È necessario assumere qualcuno che si occupi dell’uomo mentre Nader è al lavoro e l’incarico viene dato a una donna che ha una figlia di cinque anni e ed è incinta. La donna lavora all’insaputa del marito ma un giorno in cui si è assentata senza permesso lasciando l’anziano legato al letto, un alterco con Nader la fa cadere per le scale e perde il bambino.
Asghar Faradhi conferma con questo film le doti di narratore già manifestate con About Elly. Non è facile fare cinema oggi in Iran soprattutto se ci si è espressi in favore di Yafar Panahi condannato per attività contrarie al regime. Ma Faradhi sa, come i veri autori, aggirare lo sguardo rapace della censura proponendoci una storia che innesca una serie di domande sotto l’apparente facciata di un conflitto familiare. Il regista non ci offre facili risposte (finale compreso) ma i problemi che pone sono di non poco conto per la società iraniana ma non solo. Certo c’è il quesito iniziale non di poco conto: per un minore è meglio cogliere l’opportunità dell’espatrio oppure restare in patria, soprattutto se femmina?
Perché le protagoniste positive finiscono con l’essere le due donne. Entrambe con i loro conflitti interiori, con il peso di una condizione femminile in una società maschilista e teocratica ma anche con il loro continuo far ricorso alla razionalità per far fronte alle difficoltà di ogni giorno. Agghiacciante nella sua apparente comicità agli occhi di un occidentale è la telefonata che la badante fa all’ufficio preposto ai comportamenti conformi alla religione per sapere se possa o meno cambiare i pantaloni del pigiama al vecchio ottantenne che si è orinato addosso. Sul fronte opposto della barricata finiscono per trovarsi gli uomini che, o sono obnubilati dalla malattia oppure finiscono con l’aggrapparsi a preconcetti che impediscono loro di percepire la realtà in modo lucido.
Ciò che va oltre alla realtà iraniana è l’eterno conflitto sulla responsabilità individuale nei confronti di chi ci circonda. Ognuno dei personaggi vi viene messo di fronte e deve scegliere. Sotto lo sguardo protetto dalle lenti di una ragazzina. Una nota a margine: il cinema iraniano è veicolo stabile di una falsificazione narrativa che sta a priori di qualsiasi sceneggiatura. Sussistendo il divieto per le donne di mostrarsi a capo scoperto in pubblico i registi sono obbligati a farle recitare con chador o foulard vari anche quando le scene si svolgono all’interno delle mura domestiche narrativamente in assenza di sguardi estranei stravolgendo quindi la rappresentazione della realtà.”
Da ultimo e non è poco, ” Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo hanno tenuto alto l’onore del cinema tricolore grazie all’Oscar per la Migliore Scenografia, da poco vinto grazie allo straordinario lavoro portato a termine con Hugo di Martin Scorsese. Per entrambi è il terzo Oscar, dopo quelli vinti nel 2005, con The Aviator, e nel 2008, con Sweeney Todd – Il diabolico barbiere di Fleet Street. L’ormai storica collaborazione con Scorsese ha così portato nuovamente frutti ‘dorati’, per una magnifica coppia che non riesce proprio a smettere di incantare. Per questo non possiamo fare altro che ringraziarli, ancora una volta, soprattutto dopo il sentito ringraziamento dal palco del Kodak Theatre: “Per Martin e per l’Italia“. ”
Perchè nel titolo parlo di Grande Depressione? Non ci sono molti dubbi da un punto di vista economico, cosa stiamo attarversando…Quì in itaGlia, la cultura a fondo, non è un film: è stata una puntata televisiva di ottimo giornalismo italiano.
Che sia cultura profetica?
Dall’alto verso il basso e viceversa.Vi lascio immaginare il resto. Auguri a Cinecittà, a coloro che lavorano nell’arte come al Valle Occupato. E che la Festa Umana continui.
L’ Orchestra Malancia non si stanca di suonare…
Doriana Goracci
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