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ROMA / 26-06-2012

CRISI E RECESSIONE / A cosa servono in realtà le tasse?

Una cosa che nessuno dice mai riguardo alle tasse, è che esse non servono a far entrare denaro nelle casse dello stato, ma ad altri scopi. Quali sono gli scopi del sistema in cui viviamo e di chi ci governa? A cosa servono davvero le tasse?


LAZIO ultime notizie ROMA – unonotizie.it  - Le tasse servono a fornire servizi: è questo il mantra che tutti i mezzi di comunicazione uffuciali (mass media, politici, ma anche testi di economia e di scienza delle finanze, nonché diritto tributario) ripetono di continuo per convincere i cittadini riguardo al fatto che i soldi versati allo stato saranno trasformati in servizi pubblici come strrade, scuole e ospedali.

Questo errore concettuale di fondo, ad esempio, non solo la si trova in qualsiasi manuale di diritto tributario per le università, ma anche su wikipedia alla voce “tasse”, dove non esiste neanche l’ombra di una voce contraria.Appare quindi logico ai più, quando lo stato è in crisi, che la soluzione inevitabile (oltre a quella del taglio alle spese) sia quella di un aumento della tassazione per reperire nuovi fondi.

In realtà questa mossa non solo è sbagliata, ma produce effetti talvolta completamente opposti rispetto al risultato che – si dice a parole – vuole essere ottenuto.Facciamo un esempio. Non c’è bisogno di un genio per capire che un aumento delle tasse del 2 per cento non produce affatto un aumento delle entrate nelle casse dello stato di pari importo. L’unico effetto che viene realmente prodotto invece è quello di una contrazione dei consumi del 2 per cento; l’aumento reale delle entrate statali, invece, si aggira attorno allo 0,01 per cento, perché va ad incidere esclusivamente sui capitali immobilizzati e non su quelli in circolazione.

Un altro esempio preciserà meglio il concetto introdotto. Se al dipendente pubblico che guadagna 1000 euro lordi la pressione fiscale aumenta dal 30 al 33 per cento, il dipendente invece di 700 euro ne incasserà 670; tale somma è così bassa che costui sarà costretto a ridurre i consumi. Quelle 30 euro finiranno direttamente nelle tasche dello stato, e non verranno spese in consumi vari.

Ma se tali soldi fossero stati spesi in beni di consumo, sarebbero comunque finiti nelle tasche dello stato, sia pure per via indiretta; infatti sarebbero andati ad un commerciante (ad esempio al pizzaiolo) che su quelle trenta euro avrebbe pagato circa il 50 per cento di tasse (quindi 15 euro); con le rimanenti 15 euro il pizzaiolo avrebbe acquistato altri beni, su cui sarebbero state ugualmente pagate tasse, e cosi via all’infinito.

Facciamo un altro esempio. Se io spendo 1000 euro di benzina, circa 750 vanno direttamente in tasse. Le altre 250 vanno al benzinaio, che ne darà circa la metà allo stato, sempre in tasse. Con le restanti 125 il benzinaio comprerà dei beni (cibo, un motorino, libri per la scuola dei figli); questi beni saranno il guadagno di altri imprenditori che pagheranno a loro volta tasse, che compreranno a loro volta beni, in un circuito infinito.

In pratica tutto il denaro in circolazione va sempre, prima o poi, allo stato. Il modo migliore per aumentare le entrate statali, quindi, non è quello di aumentare l’IVA o le tasse, ma quello di incrementare i consumi, e colpire il mercato nero.

L’unico denaro che non finisce prima o poi nelle casse dello stato è quello che il cittadino riesce a immobilizzare e mettere da parte; quindi un aumento del prelievo fiscale sulle classi più deboli non ha alcun senso, perché non produce un aumento delle entrate statali ma unicamente un decremento dei consumi (penalizzando sia il cittadino sia l’imprenditore). L’aumento delle tasse ha senso solo se viene applicato alle classi agiate, quelle che riescono a mettere da parte soldi in banca.

In qualunque caso, in ogni sistema fiscale degno di questo nome, esiste una fascia protetta esente da tasse, che è quella dei redditi minimi, perchè è un principio ovvio che non ha senso far pagare le tasse a chi guadagna poche centinaia di euro al mese, dato che i guadagni della classi povere finiscono tutti in consumi (e quindi vanno allo stato) e non si traducono in risparmi.

Da noi, fino a qualche anno fa, erano esenti le fasce di reddito più basse. Da qualche anno invece il prelievo fiscale opera anche su chi ha redditi di poche centinaia di euro al mese, perchè il reale motivo è distruggere psicologicamente il cittadino e piegarne la volontà.

Non a caso i sistemi fiscali più intelligenti (come quello canadese Bulgaro o Australiano, per fare qualche esempio) non solo hanno aliquote basse (spesso l’aliquota massima è il 35) ma prevedono sgravi fiscali per chi investe; in alcuni paesi infatti l’utile delle imprese non è tassato se l’imprenditore reinveste i guadagni in ulteriori attività produttive. Il motivo è molto semplice: se l’imprenditore anziché accumulare soldi li reinveste, quei soldi andranno prima o poi allo stato.

Ad esempio, se Tizio ha guadagnato un milione di euro, darà il 30 per cento al fisco. Se invece quel milione lo investe nuovamente non viene tassato. Perché? Perché con quel milione verranno acquistati macchinari, capannoni, pagati stipendi; i macchinari faranno guadagnare imprenditori che pagheranno le tasse allo stato, i capannoni idem, gli stipendi verranno spesi dai dipendenti in beni di consumo. In sostanza, se lo stato decide di tassare quel milione di euro di utili, il risultato sarà che nelle sue casse andranno solo 300 mila euro; se quel milione non viene tassato, ma reinvestito, nelle casse statali andrà probabilmente quasi tutta la somma reinvestita.

In conclusione, in molti casi per lo stato è più conveniente non tassare piuttosto che tassare. Senza arrivare agli eccessi di paesi come Bermuda, dove non esiste tassa sul reddito, o Tonga, dove fino a qualche anno fa c’era un’imposta sul reddito del 2 per cento, ci sono esempi di sistemi fiscali che riescono a sopravvivere meglio del nostro, avendo un prelievo fiscale che si aggira attorno al 20 per cento di media; e in alcuni casi, come accade nel Wyoming, possono non esistere tasse sul reddito ma solo imposte indirette.

In Italia invece le tasse assumono connotazione che sfiorano il ridicolo; l’imposta di registro, ad esempio, che per i terreni è addirittura del 17 per cento (quindi si paga circa il 20 per cento se ci si sommano le imposte ipotecarie, catastali, e spese notarili) è un balzello immorale. Fino a qualche anno fa avevamo addirittura la tassa sugli accendini, e fino all’avvento del governo Berlusconi i commercianti di prodotti alimentari avevano addirittura una… tassa sui frigoriferi.

In altre parole, dal punto di vista fiscale fino a qualche anno fa eravamo considerati il peggiore paese del mondo, una vera barzelletta per gli stranieri. Successivamente le regole dell’Unione Europea hanno eliminato alcune tasse prive di logica, come l’IVA al 40 per cento sulle auto di lusso, ma di fondo siamo uno dei paesi peggiori del mondo da questo punto di vista.

Le tasse quindi – perlomeno quelle di un sistema demenziale come quello italiano – servono unicamente a tenere i cittadini in condizioni di sudditanza, per non permettere che questi abbiano tempo per pensare, evolvere, fare attività politica, informarsi. I cittadini devono sgobbare a testa bassa sei giorni su sette, per poi correre trafelati al supermercato il sabato sera e permettersi al massimo una domenica di svago, dove tutto potranno fare tranne che evolvere.

Il discorso vale anche per gli imprenditori, che sebbene godano di agi materiali talvolta superiori a quelli dei dipendenti, spesso lavorano febbrilmente anche la domenica pur di far funzionare i loro lussuosi imperi, complicatissimi da gestire a causa delle centinaia di balzelli, controlli, normative, pastoie, ostacoli, posti dalla burocrazia.

A questo allora, occorre chiedersi anche quali sono le reali funzioni dell’IMU. A questo punto è facile capire a cosa serve la recente IMU sugli immobili posta a carico di imprese e famiglie. Il motivo è presto detto.

Occorre tenere presente che le imprese hanno margini di utili abbastanza ridotti. Un grande magazzino, ad esempio, pur avendo incassi stratosferici, di milioni di euro al giorno, ha al contempo anche costi altrettanto stratosferici (dipendenti, luce, acqua, tasse varie, a cui deve aggiungersi il costo vivo delle merce deperibile che spesso viene buttata e il costo della merce invenduta).

Un’impresa che abbia un margine di utile netto all’anno, rispetto ai capitali investiti, del 10 per cento, può essere considerata florida. Molte aziende anche di grosse dimensioni, hanno però margini di utili netti che si aggirano attorno al 2 per cento e anche meno. Molte imprese agricole, da qualche anno, possono dirsi fortunate se raggiungono il pareggio del bilancio. Questo discorso era valido fino a qualche anno fa.

Da quando è iniziata la crisi economica molte imprese hanno ridotto i loro margini di guadagno, hanno iniziato a licenziare personale, a tagliare le spese, e in alcuni casi gli imprenditori hanno iniettato liquidità in aziende in passivo per tentare di stare a galla (in altre parole hanno attinto dai loro risparmi personali per risollevare il bilancio aziendale in perdita). Molti imprenditori hanno vari immobili in affitto e vivono con le rendite immobiliari.

Ora la tipologia della media impresa italiana è questa: l’imprenditore ha una o più aziende principali e una o più aziende secondarie; negli anni ha comprato immobili (parte li tiene sfitti per la famiglia, parte li ha riaffittati); in alcuni casi ha trasferito il capannone dal vecchio stabile (che ha dato in affitto) ad uno più grande. In questo momento di crisi la maggior parte degli imprenditori ha problemi di liquidità. Molti affittuari non pagano più l’affitto; molti smetteranno presto di pagarlo. In altre parole l’IMU sottrae liquidità agli imprenditori, che non potranno utilizzare tali soldi per reinvestire; e in alcuni casi, alcuni si troveranno in difficoltà perché non avranno i liquidi sufficienti per affrontare l’esborso imprevisto.

Il paradosso è che molti imprenditori dovranno pagare l’IMU su immobili da cui non percepiscono più alcun canone di locazione proprio a causa della crisi economica; oltre al danno anche la beffa quindi. Poco tempo fa un imprenditore mi diceva che doveva pagare l’IMU sull’immobile dato in locazione all’ufficio di collocamento, che però non paga l’affitto da mesi; ma il paradosso è quello di un imprenditore a cui non viene pagato l’affitto da circa un anno, per un immobile locato addirittura alla Guardia di Finanza; in compenso l’IMU per un immobile di quelle dimensioni ammonta a decine di migliaia di euro; in sostanza, il proprietario si ritrova a sborsare decine di migliaia di euro di IMU, senza avere una corrispondente entrata come guadagno.

Stesso discorso, con le dovute varianti, vale per le famiglie. In linea generale la famiglia media italiana è proprietaria della casa in cui vive, e se ha più figli spende quasi tutto quello che guadagna in spese scolastiche, vacanze e vitto. L’IMU serve quindi ad accelerare la crisi. A sottrarre liquidità alle famiglie e alle imprese, per accelerare lo sfascio.

Quei pochi imprenditori che avevano da parte dei liquidi e riuscivano a non vivere contando sui prestiti bancari, saranno costretti a mettere mano ai loro liquidi per pagare l’ IMU sui loro immobili, in questo periodo spesso improduttivi per insolvenza dell’affittuario.

Quelli che non hanno liquidi saranno costretti a vendere qualche immobile (il che significa, in un periodo di crisi, che c’è il rischio che non riescano a vendere alcunché) oppure a chiedere un ulteriore prestito alle banche, indebitandosi ancor di più. Nelle casse dello stato entreranno probabilmente meno soldi di prima, accelerando il caos e accelerando quell’effetto domino che porterà tutta l’economia italiana al collasso totale nei prossimi mesi.


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