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PALERMO / 26-07-2012

TRATTATIVA STATO – MAFIA / 12 rinvii a giudizio nell’indagine sulla trattativa Stato – Mafia

L’ex presidente del Senato accusato di falsa testimonianza nello stesso processo che coinvolge Riina e Provenzano. Mancino: ''Dimostrerò la mia estraneità''


Convivenza, coabitazione erano queste le parole d’ordine predicate dopo le stragi di Capaci e Via d’Amelio. Il 1992 era stato l’anno in cui l’omicidio di Salvo Lima aveva sancito la fine dell’era Andreotti: la Dc non poteva più garantire protezione e mano libera ai boss mafiosi, la prima Repubblica, l’egemonia democristiana e lo strapotere dello stesso Andreotti andavano declinando lentamente e un segnale evidente di tale declino era la stessa presenza di Giovanni Falcone a Roma, alla direzione nazionale antimafia dove lo aveva chiamato il socialista Claudio Martelli, in forze nello stesso governo Andreotti come ministro di Grazia e Giustizia.

La trattativa stato – mafia per attuare un nuovo patto di convivenza tra le istituzioni e Cosa Nostra iniziò poco prima del 1992, quando si iniziò a parlare di un regime speciale – il 41bis, il cosiddetto carcere duro – per i detenuti mafiosi, i boss e, soprattutto continuò dopo le morti di Falcone e Borsellino.

Come viene spiegato nella richiesta di rinvio a giudizio richiesta dalla Procura di Palermo nell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. Fu dopo l’uccisione di Salvo Lima che l’allora ministro democristiano Calogero Mannino, designato come uno dei successi bersagli, si attivò per salvarsi la vita: attraverso contatti con investigatori e uomini dei servizi segreti cercò di individuare gli interlocutori giusti per «aprire la trattativa e sollecitare eventuali richieste di Cosa nostra» per scongiurare altri attentati.

Poi arrivò la strage di Capaci e «su incarico di esponenti politici e di governo», i carabinieri del Ros (Subranni, Mori e De Donno) contattarono l'ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino, «agevolando così l'instaurazione di un canale di comunicazione con i capi di Cosa nostra, finalizzati a sollecitare eventuali richieste».

Per questo il reato ipotizzato nella richiesta di rinvio a giudizio è quello di «minaccia o violenza a un corpo politico dello Stato»; ovvero il governo, ricattato dai mafiosi per ottenere «benefici di varia natura», tra cui la modifica di alcune leggi, la revisione del maxi-processo istruito da Falcone e Borsellino, un migliore trattamento per i detenuti. La minaccia sarebbe stata evidente con la «strategia di violento attacco frontale alle istituzioni» iniziata con l’omicidio di Lima e arrivata fino a quello di Borsellino che avrebbe costituito un ostacolo nella trattativa stato – mafia.

I segnali della distensione e del raggiunto accordo non avrebbero tardato ad arrivare con il cambio di governo nell’anno successivo, la successione di Mancino a Scotti al Viminale e soprattutto, le pressioni per alleggerire il «41 bis» e il «segnale di distensione» lanciato dal ministro della Giustizia Giovanni Conso, succeduto a Martelli, che non rinnovò il «carcere duro» per oltre trecento detenuti.

Per questo tra i 12 nomi che compaiono nella richiesta di rinvio a giudizio presentata dalla procura di Palermo e firmata dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia e dai sostituti Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Lia Sava. ci sono i nomi  dei boss Totò Riina e Bernardo Provenzano, degli ex ufficiali del Ros Mario Mori e Antonio Subranni, dell’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino e dei senatori Marcello Dell’Utri e Calogero Mannino.

Tranne Mancino che è accusato di falsa testimonianza tutti gli altri sono accusati di violenza e minaccia ad un corpo politico dello Stato poiché se le istituzioni furono vittime di un estorsione di benefici e leggi ad hoc, quegli uomini o furono gli stessi estorsori o aprirono un negoziato con gli estorsori. Come nel pagamento del «pizzo» chi subisce la richiesta e paga è «parte lesa», ma chi fa da intermediario e diventa latore delle minacce  viene considerato complice del racket. Allo stesso modo, gli esponenti del governo ricattato restano le potenziali vittime, mentre gli anelli intermedi della catena sono ritenuti corresponsabili insieme ai mafiosi. Che abbiano agito per la ragion di Stato, nell'inchiesta penale non conta; anche un reato commesso con le migliori intenzioni resta tale.

L’ex presidente del Senato Nicola Mancino ha tuttavia mal digerito la presenza del suo nome insieme a quello di boss e rappresentanti della mafia, per questo i suoi legali, I suoi legali, gli avvocati Massimo Krogh e Umberto Del Basso De Caro, hanno chiesto al gup di Palermo di stralciare la posizione di Mancino, la cui accusa di falsa testimonianza è relativa alle dichiarazioni rilasciate nell’audizione per il processo Mori-Obinu sulla mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995.

Secondo i difensori di Mancino, non c’è “connessione sostanziale con il procedimento principale a carico di Bagarella ed altri. La connessione risulterebbe eventualmente in modo più diretto con il processo Mori, tuttora pendente davanti al Tribunale di Palermo”, del quale si deve attendere l’esito per valutare la posizione dell’ex ministro.


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