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VITERBO / 29-05-2015
VITERBO, LEGO LAB / Antonello Ricci racconta la Citta' dei Papi nell'ultimo appuntamento con letture en plein air
Ultime news - UnoNotizie.it - Si chiude “LEGO LAB”, manifestazione inserita fra le vincitrici del bando “Io Leggo” promosso dalla Regione Lazio per incoraggiare fra i cittadini la pratica della lettura.
Domenica 31 maggio, quarto e ultimo appuntamento con letture en plein air nel cuore del centro storico di Viterbo.
Una piazza, un libro: questo il titolo e leitmotiv degli appuntamenti nel corso dei quali strade, piazze e monumenti viterbesi che affollano le più belle pagine degli scrittori di storia locale saranno raccontate e rilette ad alta voce nei luoghi che le ispirarono.
Una narrazione pubblica di Antonello Ricci accompagnata da letture di Pietro Benedetti e percussioni di Roberto Pecci.
L'appuntamento è fissato per le ore 10.30 in piazza San Lorenzo. Dopo aver fatto tappa sul sagrato della chiesa omonima e sulle scale di palazzo Papale, il gruppo varcherà il ponte che congiunge-divarica la mitica Arbanum alla-dalla città moderna in-carne-e-ossa, per raggiungere – come di consueto – piazza della Morte.
Questa volta saremo in compagnia di Francesco Orioli, Viterbo e il suo territorio. Archeologiche ricerche, edizioni Sette Città 1997 (edizione originale: 1849).
L'iniziativa si concluderà con una degustazione di prodotti tipici nei locali di Viterbo Sotterranea.
La quota di partecipazione è 5 euro. Il ticket va preliminarmente acquistato presso Viterbo Sotterranea (piazza della Morte). Info prevendita biglietti: – 0761220851 – facebook.com/legolab
Evento realizzato con il sostegno della Regione Lazio per la cultura a cura di Euriade srl in collaborazione con Viterbo Sotterranea, Sette Città e Primaprint editori.
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Da Saffi a Mazzini. Da Leopardi a Tommaseo. Anche chi a Francesco Orioli non volle mai perdonare il voltafaccia politico – da rivoluzionario a Bologna nel '31 a codino a Roma nel '49 – pur consumatosi dopo lungo e cogitabondo esilio, seguitò ad ammirarne scienza e dottrina.
Al colto pubblico delle maggiori capitali europee Orioli fu fra i primi a raccontare della misteriosa, affascinante Atlantide etrusca. Forse fu proprio ascoltando una delle sue conferenze londinesi che la Hamilton Gray sentì parlare per la prima volta di una sconosciuta e sommamente pittoresca necropoli rupestre nei pressi di Viterbo, Castel d'Asso: sito che in seguito, da viaggiatrice-scrittrice, ella stessa avrebbe immortalato in uno dei più bei capitoli dell'incantevole e vezzoso Tour to the Sepulchres of Etruria, in 1839. [Per la cronaca, il Tour avrebbe segnato il dilagare a livello europeo di un mito tutto romantico: quello di una perduta Etruria quale romanzo dell'infanzia dei popoli.] Per amor di verità, andrà quindi ricordato come proprio di Castel d'Asso Orioli avesse già dato ampia e dettagliata divulgazione, almeno presso la comunità archeologica italica, già a partire dal 1817. Per cui, ecco: non ci stupisce che proprio a Castel d'Asso, mentre ammirava estasiata e disegnava le meraviglie incontrate a ogni passo; non ci stupisce che proprio ai piedi di quegli ieratici prospetti scolpiti nella nuda ardente rupe tufarina (i quali tanto le ricordavano, ma guarda un po'!, l'antico Egitto) la Hamilton Gray evocasse-convocasse la figura di Orioli quale capostipite della sublime scoperta: «And then began to copy what we saw. We walked on twenty more yards, and we fairly fell in to ecstasies worthy of Orioli, or Marini, or any other scavant, who may have written upon Castel d'Asso.»
Viterbo e il suo territorio. Archeologiche ricerche, splendida narrazione scientifica ad ampio spettro divulgativo [meritoriamente riportata in libreria dalla casa editrice Sette Città nel 1997 per le ottime cure di Bruno Barbini: il quale andrebbe senz'altro annoverato fra gli ultimi localisti di razza della nostra plurisecolare storiografia minore, con una certa propensione, questa però tutta novecentesca, al giornalismo-di-campanile] aveva visto la luce sul romano Giornale Arcadico nel 1849: Anno del Signore che la dice lunga su umori e passioni, dedizioni e risentimenti che ne intorbidano l'intero sotto-testo nonché, in più di passaggio, il testo stesso. Per esempio, quando il facondo autore nato all'ombra dei Cimini chiama direttamente in causa un altro localista viterbese: il colto e certosino (per contro, però, fatalmente “stitico”) canonico Luca Ceccotti. Si veda laddove Orioli gli rinfaccia di avergli negato, dopo i fatti rivoluzionari del 1831 e l'esilio, ogni ulteriore corrispondenza-consulenza archeologica. [A ricordarci che la vendetta è un piatto da servire freddo: Ceccotti avrebbe replicato a queste pagine con bile, livore e sardonici cavilli, solo tanti-tanti anni più tardi, con Viterbo già italiana e Orioli sepolto e stra-sepolto da tempo. Ma questa è già un'altra storia.]
Comunque sia, sul principio della sua introduzione Barbini emblematicamente annota: «Quando questo suo lavoro viene dato alle stampe, Francesco Orioli è da poco giunto alla conclusione del periodo più avventuroso e drammatico della sua vita.»
Credetemi, è affascinante, leggendo avanti nel libro, constatare come esso – anche grazie alla prosa del suo autore: a tratti avvincente, sempre rigorosa sotto il profilo scientifico ma, al tempo stesso, pittorescamente letteraria – sappia introdurre il lettore odierno a quel groviglio indissolubile di passioni archeologiche e mene localiste, di polemiche storiografiche e patriottici furori che segnò fin nelle sue più remote fibre il nostro risorgimento. Certo assai meglio – e con infinito maggior godimento – che non la lettura di tanti manuali di scuola.
Detto ciò, Viterbo e il suo territorio presenta per noi un altro motivo di assoluto interesse: il lavoro di Orioli testimonia infatti anche di un ambiguo-fecondo rapporto tra storia locale e leggende di fondazione identitaria peculiarissimo della nostra tradizione letteraria nazionale. Fu la nostra città, sarà bene ricordarcene qui, a dar natali a quell'Annio da Viterbo padre e mallevadore, sul finire del secolo XV, di certe enormi e vane favole “etruscopatiche”; di una certa inclinazione etimologica “chisciottesca” furiosamente applicata alla toponomastica; di molti dei falsi epigrafici e degli apocrifi letterari più noti in Europa all'alba della sua modernità.
Ebbene, con Viterbo e il suo territorio Orioli avoca a sé il compito di emancipare definitivamente la ricerca archeologica dalla menzognera eredità del magistero anniano, ben presto tramontato nei contesti culturali maggiori ma ben radicato e vivo sia in certe tentazioni romanzesche di un'archeologia ancora nel pieno della sua stagione adolescente sia nel dibattito storiografico localista. E ben vi riesce, ancorando saldamente teoria e prassi all'indagine sul campo, alla scrupolosa raccolta dei dati, allo scrutinio filologico incrociato di documenti e monumenti.
Ma quando anche lui – e chi se lo sarebbe immaginato? – parte per la tangente e comincia a scavare sul fondo oscuro di certi nomi – neanche si sentisse fra le rovine di una città perduta... Quando stra-legge – proprio lui! – su certe carte d'archivio ed equivoca-sogna-stravede un fiume chiamato Sonza al posto di un più prosaico Rivo Zozzo... E da lì, risalendo-risalendo, stròlica una presunta Sorrina Vecchia e l'immancabile Viterbo-Vetus Urbs... È un lapsus immenso, favoloso. A prendere campo infatti – inavvertitamente partorito dal ventre stesso della più agguerrita disciplina scientifica – è il demone della rêverie, della fantasticheria poetica, dell'immaginazione letteraria. Così, mentre vien fuori il localista di razza, accade che al posto di comando di certe alambiccate-complicatissime macchine etimologiche venga a sedersi Il Fanciullo Sognatore. Segno, certo, che certe ostinate pulsioni ctonie à la Annio, cacciate dalla porta, avevano fatto presto a rientrare dalla finestra. Ma anche, e soprattutto, segno che anche questa volta Massimo Onofri ci aveva visto lungo, adombrando il «sospetto che questo libro abbia avuto per suo punto di partenza come una seduzione del cuore, una qualche favolosa idea di Viterbo che l'Orioli fanciullo si formò tra antiche letture, ataviche consuetudini e ricordi locali. Un'idea, un vagheggiamento che, forse, ancora ci appartengono.»
Eh sì, Massimo, avevi ragione tu: gli Etruschi siamo noi. Bambini che fantasticano su racconti e vecchie stampe alla luce di una lampada. Mentre fuori piove.
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