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VITERBO / 15-02-2009

MITI E LEGGENDE SULL’ORIGINE DELLA CITTA’ DI VITERBO

 

TUSCIA - VITERBO - (UnoNotizie.it) Verso la metà del quattrocento Francesco D’Andrea, frate dell’ordine francescano,  con l’intento di glorificare la sua terra ne affidò le origini ad un improbabile mito. Nella sua Cronaca Viterbese egli narra che Iafet, uno dei figli di Noè, lasciati i monti di Ararat dove si era fermata l'arca, giunse in Inghilterra. Le genti che da lui discesero arrivarono in Italia costruendo città e castelli, come fecero i fratelli Italon e Iaseo che nel territorio di Viterbo fondarono due città, una chiamata Surrena  l'altra chiamata Civita Muserna.

Una seconda fantasiosa versione sulla fondazione di Viterbo la dobbiamo al frate domenicano viterbese Giovanni Nanni, detto Annio, vissuto tra il 1432 e il 1502. Oltre ad essere un celebre teologo e letterato, la sua mente stravagante  lo portò a diventare l’iniziatore di una vera e propria scuola di contraffattori. Nei suoi Commentari propose assurde rivelazioni che, snodandosi in un incredibile intreccio, uniscono storia etrusca, genealogie bibliche e miti greci. Annio fa risalire la fondazione del primo nucleo della città allo stesso Noè a cui viene attribuita la costruzione di quattro castelli: Fanum, Arbanum, Vetulonia e Longula.

E’ da questa mitica Tetrapoli  che nacque l’acronimo FAVL, tutt’ora usato e per molto tempo inserito nello stemma cittadino, nelle bandiere, negli stemmi, nelle sculture e negli affreschi. Secondo la teoria anniana, Viterbo medievale nacque quando questi quattro castelli della Tetrapoli, rimasti separati per secoli,vennero uniti con una cinta muraria grazie ad un decreto emanato da Desiderio, ultimo re dei Longobardi. Annio per provare la sua tesi presentò addirittura un’iscrizione incisa in caratteri longobardi, rinvenuta casualmente  presso l’attuale Piazza della Morte, dimostratasi in seguito un clamoroso falso. Malgrado la sua fervida fantasia, le argomentazioni anniane dovettero godere di un certo credito se si pensa che, cent’anni dopo la sua morte, i pittori Teodoro Siciliano e Baldassarre Croce vi dedicarono un ciclo di affreschi nella Sala Regia e nella Sala del Consiglio del Palazzo dei Priori di Viterbo.

Comunque, sia Francesco D’Andrea che Annio da Viterbo concordano sul fatto che il mito basilare della fondazione di Viterbo è legato alla figura del semi-dio Ercole, famoso eroe greco importato presso gli etruschi e da loro adorato con il nome di Hercle. Questo, vedendo terre disfatte e distrutte dalla guerra, edificò un castello che chiamò appunto Castello di Ercole e gli donò come simbolo di nobiltà e forza un leone, ancora oggi simbolo della città. Ritrovamenti archeologici testimoniano che sul Colle del Duomo, dove oggi sorgono la Cattedrale e il Palazzo Papale,  sorse un abitato etrusco particolarmente attivo nel VI – V sec a.C. Che tale insediamento fosse dedicato ad Ercole è documentato da fregi marmorei e frammenti di iscrizioni rinvenuti nella seconda metà del XIX secolo ma il suo nome non è certo, potrebbe essere Surina o Surna (da cui la Surrena della cronaca di d'Andrea),con riferimento al culto del dio infero Suri legato alla presenza nel territorio di numerose sorgenti termali.

Sulla scia di Annio il notaio viterbese Domenico Bianchi, nel suo inedito manoscritto Istorie di Viterbo del 1615, abbonda ancora di più in assurdi particolari. Egli racconta infatti che Ercole, giunto nella zona dei Monti Cimini, per lasciare memoria del suo valore conficcò nel suolo una clava sfidando gli abitanti del luogo ad estrarla, ma nessuno vi riuscì. Quando Ercole riprese dal terreno la clava compì un prodigio: dal foro cominciò a sgorgare un enorme getto d'acqua che riempì un’intera valle formando l'odierno lago di Vico.

Nella Tuscia la convinzione della passata presenza di Ercole è sempre rimasta viva e radicata nell’immaginario collettivo tanto da convincerci che il suo culto, continuato nel tempo, abbia contribuito a ritardare la diffusione delle prime pratiche cristiane. Dunque, anche se sono invenzioni frutto di menti fantasiose, queste epopee mitologiche, avvolte da un alone di affascinante mistero, non possono essere né ignorate né sottovalutate perché su di esse si sono costruiti i futuri avvenimenti storici e un’intera tradizione popolare giunta fino a noi.

Elisa Ignazzi


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